Descrizione
Storie e storia d’altri tempi, tra fantasia e vissuto. Famiglia, emigrazione, mestieri, rapporti sociali, riti, miti e tradizioni.
In queste pagine di “Li föli da la nòna” ho raccolto il risultato delle mie ricerche sul passato delle nostre nonne e dei nostri nonni, sugli usi, i riti e le tradizioni di un mondo contadino ormai scomparso, che ha caratterizzato i paesi delle Giudicarie nella prima metà del Novecento, fino agli anni Sessanta.
L’operazione prende spunto dalla ricerca antropologica che ho effettuato per la mia tesi di laurea “DAL NATURALE AL SINTETICO- IL COSTUME E IL VESTITO ELEMENTI DI CULTURA E MESSAGGIO SOCIALE NELLE GIUDICARIE DA FINE
OTTOCENTO A META’ NOVECENTO” l’Università degli studi di Verona, (relatore Prof.ssa Anna Maria Paini) e si è svolta seguendo tre filoni.
Il primo è costituito da un percorso scolastico durato quasi due decenni: collaborando direttamente con gli Istituti scolastici e successivamente tramite il Centro Studi Judicaria, ho coinvolto scolare e scolari in particolare della Scuola primaria, ma anche secondaria e professionale, in un’attività di ricerca su usi, costumi, dialetto e tradizioni di vari paesi giudicariesi. Nelle scuole il lavoro svolto ha riguardato soprattutto la ricerca delle testimonianze raccolte dagli alunni tra gli anziani: nonni, bisnonni e altri parenti.
Il secondo, rivolto piuttosto ad una ricerca e rivalutazione dei dialetti della Judicaria, che mi ha poi invogliato a fondare il “Gruppo dialetti judicariensi” assieme a poeti- divulgatori locali e con la consulenza di alcuni intellettuali locali, il professor Ezio Scalfi e il Maestro Mario Antolini – Maestro di scuola e di vita, ricercatore e divulgatore di storia e di geografia socio-economica locale. A questo gruppo hanno partecipato molti appassionati amanti e divulgatori del dialetto di tutta la Judicaria, con prose e poesie dialettali.
Il terzo filone è rappresentato dall’attività del gruppo culturale “Le Castellane – La Cumpagnia dal Castél” che ho fondato a Caderzone Terme agli inizi del 2000, realizzando per questa iniziativa i costumi popolari indossati dalle donne delle Giudicarie nei primi ‘900, utilizzando autentici tessuti lavorati secondo metodi artigianali tradizionali.
Questo libro rappresenta la sintesi di questi percorsi e delle mie ricerche su usi, costumi, tradizioni e sulla funzione del dialetto non solo come linguaggio ma anche come espressione della cultura locale, che vengono riproposti nella forma del filò e delle “fòle” ad essi collegate. Il corollario dei filò è rappresentato dalle recite, in diversi dialetti delle Giudicarie, dei bambini delle scuole.
Il volume contiene i testi dei filò più significativi con temi diversi che ho scritto e interpretato con il mio gruppo culturale “Le Castellane – La Cumpagnìa dal Castel”.
Il filò: non è certo facile tracciarne la storia vera e propria, poiché si è trattato di un fenomeno che ha coinvolto – per quanto ne sappiamo – numerose famiglie del mondo contadino, ed in Giudicarie specialmente quello dei contadini. Occorre pensare ai secoli senza radio e televisione, senza giornali e mezzi di comunicazione. La giornata era lunga e piena di lavoro, con rarissimi contatti sociali e si concludeva con la cena. Quindi il bisogno di incontrarsi, di stare un po’ insieme. Le case erano povere, non v’era la sala di soggiorno: unico luogo in cui trovarsi era la stalla, anche perché – nei mesi freddi – era riscaldata dalla presenza degli animali. Un ritrovo illuminato tenuamente da una lucerna a petrolio e con il fieno a disposizione in luogo delle sedie.
Nei filò le donne lavoravano a maglia, ricamavano e tessevano la lana; gli uomini, mentre fumavano la pippa o qualche avanzo di toscanello o masticavano tabacco, riparavano attrezzi agricoli, discutevano e si scambiavano opinioni e pareri sui lavori agricoli e forestali nei prati, nei boschi e nelle malghe, che riguardavano la collettività; ragazzine e ragazzini si facevano i dispetti, i giovani iniziavano ad avere i primi approcci affettivi; i bambini giocavano a nascondersi nelle mangiatoie, dove spesso finivano per addormentarsi; intanto si chiacchierava, si parlava e si sparlava dei paesani non presenti, si alimentava qualche malumore nei confronti delle comunità vicine sempre colpevoli di non rispettare i confini dei pascoli, di tante altre infrazioni e dispetti, si ascoltavano i forestieri, generalmente qualche venditore o artigiano ambulante, ospitati nelle stalle dove passavano poi la notte per riprendere il loro itinerario la mattina seguente, si ascoltavano i racconti e le avventure qualche volta inventate dei lavoranti stagionali che rientravano a fine inverno dalla pianura e soprattutto si raccontavano storie e “fole” ai bambini e si facevano previsioni sull’andamento del tempo e sui programmi per i lavori della bella stagione prossima. Nelle “storielle” di questa raccolta, si trovano molti “modi di dire” rimasti nella parlata dialettale e che risultano linguisticamente e culturalmente assai determinanti, anche perché spesso sono difficilmnte traducibili in italiano. Ogni fòla (storiella) veniva raccontata durante i filò serali nelle stalle o nelle stue. Mentre si chiacchierava del più e del meno i bambini intervenivano per sapere il significato delle frasi pronunciate dai grandi e la nonna, o chi per lei, spiegava raccontando la storia.
E’ anche in quei filò che le generazioni sono cresciute e ci hanno tramandato una “civiltà” che rimane il substrato culturale del nostro oggi. Ed ecco il perché del bisogno essenziale di rievocarne la sostanziale e positiva importanza socio-storica.
La rappresentazione del filò si propone di far rivivere l’atmosfera di un tempo passato. Non si tratta di una rappresentazione meramente folcloristica, di una sfilata di costumi, di una esibizione di oggetti e attrezzi con intenti nostalgici, di una manifestazione di pura esteriorità, come succede spesso con gruppi che non hanno nessun riferimento alla nostra storia.
Il filò intende far conoscere, soprattutto alle nuove generazioni, aspetti della vita sociale e delle famiglie, il lavoro agricolo e artigianale e l’emigrazione, i riti e le tradizioni nei nostri paesi nella prima metà del secolo scorso, con una particolare attenzione al ruolo delle donne in quella società ormai tramontata, che vive solo nei ricordi dei più anziani.
E’ stato soprattutto nella seconda metà del Novecento che si sono avvertiti i più forti cambiamenti che hanno stravolto modi di vita e rapporti che nei secoli precedenti avevano visto una lenta evoluzione sullo sfondo di un mondo contadino alle prese con un territorio aspro e avaro.
Nel filò si cerca di cogliere e riproporre quelli che sono i valori più autentici che ancora oggi costituiscono i fondamenti del nostro vivere quotidiano e che vogliamo difendere e trasmettere alle nuove generazioni; viviamo in un mondo globalizzato, ma abbiamo la convinzione che non debbano essere smarrite le nostre radici, che sia necessario coniugare il travolgente flusso di modelli esterni proposti dai mezzi di comunicazione e dalla mobilità delle persone con la solidità della nostra tradizione, con i valori della nostra storia; il mondo è globalizzato, ma non va persa di vista la dimensione locale per non accogliere acriticamente tutto ciò che ci viene proposto e a volte imposto attraverso il bombardamento mediatico. Insomma come si usa dire cerchiamo di mediare tra globalismo e localismo in nome di un sano “glocalismo”.
Per evitare illusorie nostalgie e sentimentalismi vengono evidenziate nel filò anche le difficoltà e i disagi e i problemi che oggi sono stati almeno in parte superati e risolti: l’emigrazione, il lavoro minorile, la miseria, le fatiche immani per strappare alla terra qualche prodotto che consentiva spesso solo la sopravvivenza, il ruolo subalterno delle donne, con la sottomissione e i sacrifici quasi mai riconosciuti.
Proprio su queste difficoltà i nostri avi hanno costruito nel tempo i fondamenti di quella “cultura” che penso dobbiamo conservare: la collaborazione, l’uso rispettoso del nostro territorio e l’amministrazione collettiva dello stesso, una volontà coriacea di affrontare le difficoltà con il lavoro e con i sacrifici, lavorando la terra o emigrando, la solidarietà che caratterizzava la famiglia patriarcale e in generale la comunità dei paesi.
Tutto il quadro viene presentato in una forma scherzosa, esasperando le situazioni, forzando o adattando talvolta le collocazioni nel tempo e quindi concedendo qualcosa anche alla nostalgia.